Oggi nel mondo 1,3 miliardi di persone non hanno accesso all'acqua 
potabile e 2,5 miliardi sono prive di servizi igienicosanitari. Secondo 
l'Undp, il programma Onu per lo sviluppo, nei prossimi venti anni, a 
causa del cambiamento climatico, agli ordinari fenomeni di migrazione si
 aggiungeranno 500 milioni di profughi idrici, ovvero persone che 
dovranno abbandonare il luogo in cui vivono perché non avranno più 
accesso all'acqua. Nel frattempo, nel mondo sono in corso più di 50 
conflitti internazionali legati alla proprietà, alla spartizione e 
all'uso dell'acqua.
Basterebbero questi dati per restituire significato all'importante 
battaglia per l'acqua in corso sul pianeta: una vera e propria battaglia
 di civiltà e per il diritto al futuro di questa e delle prossime 
generazioni.
L'acqua, bene essenziale alla vita, è oggi un bene sempre più scarso.
 L'aumento della popolazione mondiale, i fenomeni di urbanizzazione 
forzata, l'esplosione dei consumi di acqua pro capite nelle ricche 
nazioni industrializzate, le massicce deforestazioni in corso, i rischi 
climatici (in particolare per le zone umide costiere), la progressiva 
cementificazione dei territori, gli inquinamenti prodotti dalle attività
 industriali, dall'agricoltura intensiva e dai grandi agglomerati 
urbani, hanno reso l'approvvigionamento dell'acqua un problema 
drammatico per molte fasce della popolazione.
Ma è proprio il binomio essenzialità/ scarsità ad aver calamitato 
sull'acqua gli interessi di un modello economico e finanziario che, 
essendo basato sul profitto, ha visto in questo elemento la possibilità 
di un 
business garantito. Perché, se per far comprare una nuova
 automobile ogni due anni o un nuovo telefono cellulare ogni sei mesi 
sono necessarie ingenti spese di pubblicità che inducano all'acquisto, 
non c'è bisogno di nessuna campagna di comunicazione per convincere le 
persone a consumare acqua: sono semplicemente necessitate a farlo, tutti
 i giorni e per sempre. Quello dell'acqua può diventare, di conseguenza,
 un mercato che gli economisti chiamano "a domanda rigida", ovvero con 
garanzia permanente di profitto.
Sono queste le motivazioni che hanno avviato, negli ultimi tre 
decenni, una forte pressione delle grandi multinazionali e dei capitali 
finanziari verso politiche che, contemporaneamente, hanno visto 
moltiplicarsi le mobilitazioni e le rivolte popolari in difesa del 
diritto all'acqua, per l'affermazione dell'acqua bene comune e per la 
sua gestione pubblica e partecipativa.
Mercificazione
In Italia, i processi di privatizzazione sono iniziati con 
l'approvazione della legge n. 36/94, che, pur avendo positivamente 
deciso l'accorpamento delle gestioni in Ambiti territoriali ottimali, 
superando la frammentazione delle stesse, ha introdotto una gestione dei
 servizi idrici improntata a una concezione aziendalista e orientata al 
raggiungimento del profitto, prevedendo, tra l'altro, che l'intero costo
 del servizio fosse coperto dalla sola tariffa e introducendo, fra le 
voci di questa, anche l'adeguata remunerazione del capitale investito, 
ovvero la garanzia del profitto per i soggetti gestori.
Si è determinata da allora la trasformazione delle precedenti aziende
 municipalizzate - che per oltre 60 anni avevano gestito il servizio 
idrico - in società per azioni (Spa), ovvero enti di diritto privato il 
cui unico scopo è la produzione di dividendi per gli azionisti.
Da allora la privatizzazione del servizio idrico ha iniziato la sua 
marcia, con gestioni totalmente privatizzate, o a capitale misto 
pubblico-privato collocate in Borsa, o con gestioni a totale capitale 
pubblico. Tutte accomunate dall'idea dell'acqua come bene economico e 
orientate alla mercificazione del bene comune; tutte accomunate da un 
consenso trasversale di gran parte delle forze politiche e legate a una 
sostanziale riduzione degli spazi di democrazia.
Perché, con la privatizzazione del servizio idrico, non solo le 
popolazioni perdono tutte le possibilità di controllo del ciclo 
dell'acqua, ma persino gli stessi organismi elettivi come i consigli 
comunali vengono espropriati di tutte le decisioni, da quel momento 
affidate ai consigli di amministrazione delle Spa.
Comparando i dati prodotti dalla Commissione di vigilanza sulle reti 
idriche (organismo ministeriale) e dalla Fondazione Civicum di 
Mediobanca, si scopre come in 15 anni di privatizzazione del servizio 
idrico le tariffe siano aumentate del 60% (quattro volte l'inflazione), 
l'occupazione sia diminuita del 15%, gli investimenti siano crollati di 
due terzi, e i consumi lievitati oltre il 20%.
Nonostante questo quadro, nell'attuale legislatura il governo ha 
tentato con l'approvazione dell'art. 15 d. l. 135/09 (cosiddetto 
"Decreto Ronchi"), che ha modificato l'art. 23bis della L. 133/08, la 
definitiva accelerazione della consegna al mercato di tutte le gestioni 
dei servizi idrici.
Nel frattempo, da ormai diversi anni, in decine di territori del 
paese sono nate fortissime resistenze popolari alle privatizzazioni in 
atto: si tratta di mobilitazioni di comitati e di cittadini che hanno 
sperimentato gli effetti delle privatizzazioni in corso, con 
esponenziali aumenti delle tariffe e drastica riduzione della qualità 
del servizio.
Nel 2006, tutte queste esperienze territoriali, assieme a molte 
organizzazioni associative e sindacali, hanno costituito il Forum 
italiano dei movimenti per l'acqua
, una rete che ha permesso il
 confronto e lo scambio delle esperienze, l'intreccio dei saperi e 
l'avvio di una forte vertenza nazionale per l'affermazione dell'acqua 
bene comune, per la sua sottrazione al mercato e la sua restituzione 
alla gestione delle comunità locali consorziate.
Nell'anno successivo una legge d'iniziativa popolare, con oltre 
400.000 firme di cittadini, è stata consegnata al parlamento, la cui 
indifferenza ha mostrato, una volta di più, la separazione tra la 
società e le istituzioni rappresentative e il degrado progressivo della 
democrazia.
Reazione dal basso
È maturata allora l'idea che la cittadinanza dal basso doveva 
riappropriarsi del bene comune acqua e della democrazia, cercando di 
cambiare, con la mobilitazione sociale diffusa e reticolare, l'agenda 
politica del paese: quando il parlamento ha approvato il Decreto Ronchi,
 l'indignazione sociale ha prodotto la proposta di arrivare al 
referendum, con una campagna di raccolta firme straordinaria, 
auto-organizzata dal basso, inclusiva e orizzontale, capace di 
raggiungere il record di 1,4 milioni di firme in due mesi, senza contare
 su nessuna sponsorizzazione politica, con pochissimi soldi e nel più 
totale silenzio dei grandi mass media.
Quella campagna è stata la più grande dimostrazione dell'esistenza di
 un anticorpo sociale diffuso, fatto di donne e uomini molto diversi tra
 loro per storia personale, appartenenza religiosa, culturale e 
politica, ma accomunati dal rifiuto dell'idea malsana di consegnare al 
mercato l'intera vita delle persone e dalla speranza di una nuova idea 
di democrazia e di società basata sulla riappropriazione sociale dei 
beni comuni.
Ed è proprio questo uno dei motivi che rende la scadenza referendaria
 del 12 e 13 giugno prossimi un appuntamento fondamentale. In quelle 
date, per la prima volta dopo decenni, le politiche liberiste possono 
essere sanzionate da un voto democratico dell'intero popolo italiano. 
Sarebbe una vittoria epocale, capace, oltre che di aprire la strada alla
 ripubblicizzazione dell'acqua, di rimettere in discussione un modello 
sociale e di sviluppo divenuto per i più insostenibile.
Sono due i referendum su cui ci si dovrà pronunciare. Con il primo 
"sì", si abrogherà il Decreto Ronchi e si farà uscire il servizio idrico
 dalle logiche del mercato. Con il secondo "sì", si faranno uscire i 
profitti dalla gestione dell'acqua. Aprendo così la strada a un nuovo 
modello di pubblico, che può essere tale solo se fondato sulla 
partecipazione sociale dei cittadini alla gestione dell'intero ciclo 
dell'acqua.
La vittoria dei "sì" ai referendum porrebbe il nostro paese sulla 
scia delle esperienze latino-americane (Bolivia, Ecuador, Uruguay), ma 
anche europee (Olanda, Parigi, Berlino), che hanno scelto la strada 
della riappropriazione dell'acqua come paradigma di un nuovo modello 
sociale partecipativo.
Una grande occasione per ridistribuire speranza alle persone, 
riaffermando l'indisponibilità dei diritti universali e la difesa dei 
beni comuni.
Perché si scrive acqua e si legge democrazia. Perché solo la partecipazione è libertà.