Basterebbero questi dati per restituire significato all'importante battaglia per l'acqua in corso sul pianeta: una vera e propria battaglia di civiltà e per il diritto al futuro di questa e delle prossime generazioni.
L'acqua, bene essenziale alla vita, è oggi un bene sempre più scarso. L'aumento della popolazione mondiale, i fenomeni di urbanizzazione forzata, l'esplosione dei consumi di acqua pro capite nelle ricche nazioni industrializzate, le massicce deforestazioni in corso, i rischi climatici (in particolare per le zone umide costiere), la progressiva cementificazione dei territori, gli inquinamenti prodotti dalle attività industriali, dall'agricoltura intensiva e dai grandi agglomerati urbani, hanno reso l'approvvigionamento dell'acqua un problema drammatico per molte fasce della popolazione.
Ma è proprio il binomio essenzialità/ scarsità ad aver calamitato sull'acqua gli interessi di un modello economico e finanziario che, essendo basato sul profitto, ha visto in questo elemento la possibilità di un business garantito. Perché, se per far comprare una nuova automobile ogni due anni o un nuovo telefono cellulare ogni sei mesi sono necessarie ingenti spese di pubblicità che inducano all'acquisto, non c'è bisogno di nessuna campagna di comunicazione per convincere le persone a consumare acqua: sono semplicemente necessitate a farlo, tutti i giorni e per sempre. Quello dell'acqua può diventare, di conseguenza, un mercato che gli economisti chiamano "a domanda rigida", ovvero con garanzia permanente di profitto.
Sono queste le motivazioni che hanno avviato, negli ultimi tre decenni, una forte pressione delle grandi multinazionali e dei capitali finanziari verso politiche che, contemporaneamente, hanno visto moltiplicarsi le mobilitazioni e le rivolte popolari in difesa del diritto all'acqua, per l'affermazione dell'acqua bene comune e per la sua gestione pubblica e partecipativa.
Mercificazione
In Italia, i processi di privatizzazione sono iniziati con l'approvazione della legge n. 36/94, che, pur avendo positivamente deciso l'accorpamento delle gestioni in Ambiti territoriali ottimali, superando la frammentazione delle stesse, ha introdotto una gestione dei servizi idrici improntata a una concezione aziendalista e orientata al raggiungimento del profitto, prevedendo, tra l'altro, che l'intero costo del servizio fosse coperto dalla sola tariffa e introducendo, fra le voci di questa, anche l'adeguata remunerazione del capitale investito, ovvero la garanzia del profitto per i soggetti gestori.
Si è determinata da allora la trasformazione delle precedenti aziende municipalizzate - che per oltre 60 anni avevano gestito il servizio idrico - in società per azioni (Spa), ovvero enti di diritto privato il cui unico scopo è la produzione di dividendi per gli azionisti.
Da allora la privatizzazione del servizio idrico ha iniziato la sua marcia, con gestioni totalmente privatizzate, o a capitale misto pubblico-privato collocate in Borsa, o con gestioni a totale capitale pubblico. Tutte accomunate dall'idea dell'acqua come bene economico e orientate alla mercificazione del bene comune; tutte accomunate da un consenso trasversale di gran parte delle forze politiche e legate a una sostanziale riduzione degli spazi di democrazia.
Perché, con la privatizzazione del servizio idrico, non solo le popolazioni perdono tutte le possibilità di controllo del ciclo dell'acqua, ma persino gli stessi organismi elettivi come i consigli comunali vengono espropriati di tutte le decisioni, da quel momento affidate ai consigli di amministrazione delle Spa.
Comparando i dati prodotti dalla Commissione di vigilanza sulle reti idriche (organismo ministeriale) e dalla Fondazione Civicum di Mediobanca, si scopre come in 15 anni di privatizzazione del servizio idrico le tariffe siano aumentate del 60% (quattro volte l'inflazione), l'occupazione sia diminuita del 15%, gli investimenti siano crollati di due terzi, e i consumi lievitati oltre il 20%.
Nonostante questo quadro, nell'attuale legislatura il governo ha tentato con l'approvazione dell'art. 15 d. l. 135/09 (cosiddetto "Decreto Ronchi"), che ha modificato l'art. 23bis della L. 133/08, la definitiva accelerazione della consegna al mercato di tutte le gestioni dei servizi idrici.
Nel frattempo, da ormai diversi anni, in decine di territori del paese sono nate fortissime resistenze popolari alle privatizzazioni in atto: si tratta di mobilitazioni di comitati e di cittadini che hanno sperimentato gli effetti delle privatizzazioni in corso, con esponenziali aumenti delle tariffe e drastica riduzione della qualità del servizio.
Nel 2006, tutte queste esperienze territoriali, assieme a molte organizzazioni associative e sindacali, hanno costituito il Forum italiano dei movimenti per l'acqua, una rete che ha permesso il confronto e lo scambio delle esperienze, l'intreccio dei saperi e l'avvio di una forte vertenza nazionale per l'affermazione dell'acqua bene comune, per la sua sottrazione al mercato e la sua restituzione alla gestione delle comunità locali consorziate.
Nell'anno successivo una legge d'iniziativa popolare, con oltre 400.000 firme di cittadini, è stata consegnata al parlamento, la cui indifferenza ha mostrato, una volta di più, la separazione tra la società e le istituzioni rappresentative e il degrado progressivo della democrazia.
Reazione dal basso
È maturata allora l'idea che la cittadinanza dal basso doveva riappropriarsi del bene comune acqua e della democrazia, cercando di cambiare, con la mobilitazione sociale diffusa e reticolare, l'agenda politica del paese: quando il parlamento ha approvato il Decreto Ronchi, l'indignazione sociale ha prodotto la proposta di arrivare al referendum, con una campagna di raccolta firme straordinaria, auto-organizzata dal basso, inclusiva e orizzontale, capace di raggiungere il record di 1,4 milioni di firme in due mesi, senza contare su nessuna sponsorizzazione politica, con pochissimi soldi e nel più totale silenzio dei grandi mass media.
Quella campagna è stata la più grande dimostrazione dell'esistenza di un anticorpo sociale diffuso, fatto di donne e uomini molto diversi tra loro per storia personale, appartenenza religiosa, culturale e politica, ma accomunati dal rifiuto dell'idea malsana di consegnare al mercato l'intera vita delle persone e dalla speranza di una nuova idea di democrazia e di società basata sulla riappropriazione sociale dei beni comuni.
Ed è proprio questo uno dei motivi che rende la scadenza referendaria del 12 e 13 giugno prossimi un appuntamento fondamentale. In quelle date, per la prima volta dopo decenni, le politiche liberiste possono essere sanzionate da un voto democratico dell'intero popolo italiano. Sarebbe una vittoria epocale, capace, oltre che di aprire la strada alla ripubblicizzazione dell'acqua, di rimettere in discussione un modello sociale e di sviluppo divenuto per i più insostenibile.
Sono due i referendum su cui ci si dovrà pronunciare. Con il primo "sì", si abrogherà il Decreto Ronchi e si farà uscire il servizio idrico dalle logiche del mercato. Con il secondo "sì", si faranno uscire i profitti dalla gestione dell'acqua. Aprendo così la strada a un nuovo modello di pubblico, che può essere tale solo se fondato sulla partecipazione sociale dei cittadini alla gestione dell'intero ciclo dell'acqua.
La vittoria dei "sì" ai referendum porrebbe il nostro paese sulla scia delle esperienze latino-americane (Bolivia, Ecuador, Uruguay), ma anche europee (Olanda, Parigi, Berlino), che hanno scelto la strada della riappropriazione dell'acqua come paradigma di un nuovo modello sociale partecipativo.
Una grande occasione per ridistribuire speranza alle persone, riaffermando l'indisponibilità dei diritti universali e la difesa dei beni comuni.
Perché si scrive acqua e si legge democrazia. Perché solo la partecipazione è libertà.
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